30 Ottobre 2025
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Ho apprezzato l’editoriale di Aldo Tagliaferro del 28 ottobre scorso perché anzi tutto riflette sul problema generale del futuro delle aziende italiane a fronte di un mercato interno statico e uno internazionale sempre più complesso e difficile da fronteggiare. Questo tenendo presente che il tessuto imprenditoriale del Paese è fatto in gran parte da PMI, meno attrezzate ad affrontare queste difficoltà. Il fondo approfondisce un aspetto ulteriore, e cioè che la proprietà di molte imprese, grandi ma anche meno grandi, è passata nelle mani di investitori stranieri, e discute se questa sia solo un’opportunità per la loro crescita, o ponga anche dei problemi.
A queste riflessioni aggiungo alcune mie: la prima è che gli investitori, stranieri ma anche nazionali che siano, possono essere industriali o finanziari, e in questo secondo caso sono noti casi in cui la nuova proprietà, col suo management, ha come obiettivo massimizzare gli utili, diremmo a ogni costo, per poi lucrarne un vantaggio in una nuova cessione. In generale questo gioco può dare vantaggi sul breve periodo, o forse nemmeno, ma certo determina rischi sul medio: la sua filosofia non è quella di valorizzare il territorio e le prospettive di un autentico sviluppo aziendale che, non ultimo, coinvolga i lavoratori. Questo fenomeno non andrebbe incoraggiato.
E’ diverso quando invece entrano in azienda investitori industriali, cioè del settore o affini: se un’impresa interessa perché è brava a fare il suo lavoro, al compratore interessa che quanto meno continui a farlo. Se l’investitore è internazionale questo può aiutare la crescita nel mercato estero, anche se è possibile pure in questo caso che il legame col territorio in parte venga meno e, in caso di successivi problemi, l’azienda italiana possa essere più sacrificabile di altre. Dipende molto dai dirigenti, le maestranze, il contesto, la politica.
Acquisizioni di tipo industriale, nel rafforzare imprese selezionate perchè già forti, possono mettere in difficoltà concorrenti o soggetti della filiera più deboli, è vero. Ma questo processo “darwiniano” è intrinseco a ogni mercato efficiente, e andrebbe perciò affrontato dai territori e dai lavoratori interessati con flessibilità e, non ultimo, con l’offerta da parte del sistema di formazione continua che consenta loro di riqualificarsi.
Nel nostro Paese da molti anni c’è la tendenza a rallentare questi processi di ristrutturazione, sino a ostacolarli. Questo non è un male in assoluto, perché con un serio impegno è in alcuni casi possibile superare crisi congiunturali, tuttavia diventa spreco di risorse quando per ragioni strutturali, evidenti o no, le prospettive di rilancio non ci sono.
Abbiamo attraversato un periodo che alcuni hanno definito di neo-liberismo, magari “selvaggio”, ma, a parte che in realtà l’Italia di liberismo non ne ha visto molto, bisogna domandarsi il perché questo da noi sia avvenuto. I meno giovani ricorderanno di quando lo Stato produceva panettoni, e lo faceva perché il privato che lo faceva prima non era in grado di stare sul mercato (figuriamoci dopo), e comunque ci sono ancora territori in cui i cassintegrati sono ormai istituzionali, bloccando una reale ricerca di soluzioni di lavoro.
Oggi lo Stato o le sue emanazioni stanno tornando sul mercato per ragioni diverse: difendere la “sovranità” italiana in questo o quel settore dell’economia, ritenuto strategico. Lo fanno intervenendo con partecipazioni pubbliche (stiamo tornando pian piano con nomi diversi ai tempi dell’IRI), o altri mezzi, in particolare rivendicando delle “golden shares”, o il controllo sulle banche. E’ questa un’alternativa a un benefico rafforzamento delle imprese tramite alleanze con altre straniere, anche tramite acquisizioni parziali o totali?
A mio parere bisogna tenere conto di alcune premesse importanti. L’Italia, come gran parte dell’Occidente, sta fisiologicamente perdendo peso rispetto a Paesi emergenti che hanno popolazioni più giovani e numerose, i cui mercati e le cui imprese stanno perciò crescendo. Lei ha invece un piccolo mercato nazionale, e l’integrazione con quello europeo non sta facendo molti passi avanti, anche perché le forze politiche scelte dall’elettorato in Italia, e non solo, su questo sono fredde. Lo Stato è indebitato, ogni anno si pagano interessi delle dimensioni di manovre: che investimenti può davvero fare sulle imprese? Se facesse bene il suo lavoro, rendendo più efficiente la burocrazia, finanziando più la formazione, abbassando gli oneri fiscali sul lavoro e sull’energia, sarebbe già tanto.
Il Presidente
Giuseppe Iotti