Lettera del Presidente GIA, Ing. Giuseppe Iotti: “Europa tutta da cambiare?”

15 maggio 2019

EUROPA TUTTA DA CAMBIARE?

L’occasione per questa comunicazione, che vi porgo quasi ogni mese, e cade questa volta in periodo pre-elettorale, è il titolo di un intervento di un candidato parmigiano pubblicato oggi sulla Gazzetta di Parma: Europa tutta da cambiare.

Come sempre, il titolo è redatto dal giornalista, ma credo che rifletta il pensiero espressovi dal candidato, il quale, fatto rilevante, è un imprenditore e un dirigente di un’associazione di settore, quindi per noi particolarmente autorevole.

Vorrei proporvi dunque qualche riflessione in merito al fatto che l’Europa sia tutta da cambiare o meno, anche in rapporto ad alcuni aspetti più particolari sollevati dall’articolo.

Corrisponde certo a verità che il mondo dell’artigianato e delle PMI sia in Italia più sviluppato, da sempre, che negli altri maggiori paesi europei, e che questo ci crei delle difficoltà. L’impostazione della legislazione europea infatti non può che riflettere questa asimmetria. I rappresentanti italiani nel Parlamento Europeo, perciò, devono lavorare duro per difendere e sviluppare gli interessi italiani in questo senso, ma credo nella misura del possibile, tutti, tutti quelli che in Parlamento ci andavano (non tutti purtroppo ci andavano, alcuni mai), abbiano lavorato duro per questo scopo. Nelle mie passate esperienze associative europee ho particolarmente apprezzato il lavoro del Presidente del Parlamento europeo, l’on. Tajani, che peraltro in Italia è un alleato storico del partito che è qui rappresentato da questo candidato, immagino quindi impegnato in una significativa dialettica interna allo schieramento. Ma non è il solo, certo questo non è un endorsement a questo o quel gruppo parlamentare.

Ammesso che in Europa debba cambiare tutto, spererei dunque che l’on. Tajani non cambi, e resti presidente del Parlamento, posizione espressa dalla futura maggioranza parlamentare, dalla quale può meglio difendere gli interessi italiani di quel che potrà fare chi eventualmente si trovasse in quella sede all’opposizione.

Condivido, dell’intervento del candidato, che i nostri rappresentanti debbano difendere le condizioni per cui il Made in Italy può restare un successo, dato che le nostre esportazioni, in particolare manifatturiere, sono notoriamente il settore che tiene in piedi il Paese, e, tra queste, le più importanti sono quelle a maggior valore aggiunto, come l’agroalimentare di qualità, e per venire al settore del candidato, la moda ed il lusso in genere. Oltre alla meccanica e per fortuna a tanti altri settori, che l’Europa non ha soffocato, a giudicare dai risultati. I paesi europei d’altronde sono di gran lunga i nostri maggiori mercati di esportazione.

Venendo ad uno degli argomenti particolari sollevati, non sono un imprenditore agricolo, né lo è il candidato, per cui non so se davvero l’Italia sia la prima economia agricola in Europa, e di conseguenza i 4.4 miliardi che riceverebbe l’Italia dalla UE siano sproporzionatamente bassi rispetto a quelli tedeschi o francesi. A me risulta che il PIL agricolo francese sia circa il 60% superiore a quello italiano, per cui, se la Francia ricevesse i 6.8 miliardi indicati nell’articolo, i due contribuiti sarebbero proporzionati. Posso sbagliare, e in proposito dico che siano i numeri a dimostrare che l’Europa ci tratta male, o il contrario, il tema non è riducibile a sensazioni.

Però qui il punto è un altro, che va oltre considerazioni sull’economia agricola, e cioè se e come noi possiamo aspirare ad avere dalla UE contributi settoriali per esempio doppi, come propone l’intervento cui mi sto riferendo. Parlo di tutti i settori economici interessati, quelli propri di artigiani e PMI.

Una considerazione, generale, è che molti contributi vengono assegnati dalla UE in funzione di programmi proposti dagli Stati membri, e soprattutto nel caso italiano, dalle Regioni. E’ noto come in questo senso lavori bene l’Emilia Romagna, mentre altre regioni male o malissimo, e tra esse alcune delle più povere, per cui paradossalmente ricevano meno, e anche molto meno, di quanto in teoria avrebbero diritto. Però per propria colpa, non della UE.

La seconda considerazione è che, per ottenere qualcosa, mia esperienza personale, ma è buon senso, occorre equilibrare bene le azioni rivendicative con quelle collaborative. La pura rivendicazione porta a poco, specie quando le controparti sono forti, e si hanno oggettivi elementi di debolezza. D’altra parte l’atteggiamento collaborativo, di per sé sempre auspicabile, non deve essere ingenuo e, per riuscire, deve trovare la collaborazione degli altri, cosa meno difficile quando prima se ne è guadagnato il rispetto.

Veniamo ad alcune esemplificazioni di questi basilari principi di convivenza internazionale.

Ad esempio: insultare il presidente Juncker insinuando che sia un ubriacone non è utile come premessa a farci raddoppiare i contributi europei o qualunque cosa positiva possa fare per noi. I sondaggi a livello europeo peraltro fanno pensare ad una persistenza della sua forza politica in maggioranza, per cui restarvi in buone relazioni a me sembrerebbe più intelligente.

Quando i francesi o i tedeschi ci trattano male, replicare nello stesso modo non è utile, specie se la prima provocazione provenisse da noi, non tanto nei contenuti, sempre legittimi, e magari giusti, ma appunto nei toni, laddove l’aggressività nel medio periodo non ha mai pagato, può farti prendere qualche voto oggi, per poi trovarti in difficoltà domani, coinvolgendo il Paese e le sue forze sociali incolpevoli delle tue  intemperanze.

Altro esempio: se la Gran Bretagna, che ha per prima inventato le etichette che premierebbero la Coca Cola rispetto al parmigiano, così facendo ha fatto male, il problema non è risolto se la sua (risicata) maggioranza diciamo così sovranista la porta fuori dalla UE, così delle regole europee, quali che siano, se ne farà un baffo. Anzi forse di farsene un baffo era lo scopo principale.

Se noi, a forza di contrapporti a paesi importanti della UE, dovessimo essere messi in condizioni di uscirne, le condizioni cui sarebbero soggetti i prodotti italiani non ne avrebbero un beneficio, anzi. Al di là del fatto che l’Italia costituzionale e repubblicana, che ha ricostruito il paese dopo la seconda guerra mondiale contribuendo come paese fondatore alla cooperazione europea, ha fatto molto meglio di chi l’ha fatta entrare in una guerra che il paese l’ha distrutto. Le opinioni di oggi non possono non fare i conti con quel passato dove già ci fu chi ritenne giusto mandarci allo sbaraglio per mal poste ambizioni.

Se dovessimo distanziarci troppo dagli altri membri dell’Eurozona, e di conseguenza essere costretti ad uscirne, credo che solo imprenditori di corto respiro saluterebbero il passaggio da un’area di moneta forte ad una di moneta debole, come lo fu la Lira nei suoi ultimi trent’anni di vita. Per quanto l’Euro a trazione nord-europea indubbiamente ci abbia creato dei problemi. Però i costi di un eventuale conflitto col prossimo governatore della Banca centrale europea, che non sarà più un italiano, li pagheranno quegli italiani che si presume di difendere. Così come gli italiani, incluse le nostre aziende, pagano già un punto abbondante in più di spread, grazie alla scarsa considerazione che oggi hanno i risparmiatori (paradossalmente più che altro italiani) del nostro sistema politico, economico e finanziario. Dove c’è chi vorrebbe addirittura una maggiore presenza dello Stato in economia, ciò che qualunque imprenditore dovrebbe aborrire. E’ già la più alta nei paesi avanzati e i risultati sono qui da vedere. Sul caso Alitalia in specie dico: “Non coi miei soldi”.

Allontanarci dai paesi che hanno con noi fondato la cooperazione europea, cioè da chi oggi li governa, ci costringe ad avvicinarci a paesi come l’Ungheria, che poco potranno mai fare per noi. Per non parlare di Putin o peggio, e considerando anche che gli USA al momento pensano all’”America First”, il che già sta danneggiando il nostro export. Del resto, per un grande paese manifatturiero esportatore come il nostro, che ancora oggi importa più che altro gas e petrolio (in moneta forte), l’abbandono del libero commercio, cioè in fondo della globalizzazione, verso il protezionismo, sarebbe solo una difesa di produttori deboli destinati purtroppo comunque a sparire, se si crede al libero mercato, per quanto sia socialmente responsabile.

Tutto questo può essere oggetto di discussione, non è verità rivelata, ma io direi: stare in Europa, con serietà, per cambiare quel qualcosa che per noi non va, avendo come stile e strumento la collaborazione coi partner.

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