Così il Covid-19 sta accelerando la crisi della globalizzazione. Commento del Presidente GIA Giuseppe Iotti.

24 novembre 2020

Invito gli associati alla lettura dell’articolo del Sole24Ore riportato in allegato, che è piuttosto complesso, ma che in sintesi lancia un messaggio che, se ho ben compreso, cerco qui di seguito di sintetizzare.

Al di là di altri temi, soprattutto di strategia difensiva dell’Occidente rispetto alla forza cinese, in Asia sta succedendo una cosa molto importante per noi, anzi due. I cittadini della Cina e degli altri paesi emergenti (incluso il subcontinente indiano) sono sempre meno poveri perché chiedono di essere pagati di più, in effetti vengono pagati di più e costano di più alle loro imprese il cui prodotto è meno competitivo di quanto non fosse anni fa. Siccome questi cittadini sono meno poveri, stanno diventando in massa consumatori più interessanti, non solo per le nostre imprese (che servono solo una minoranza di molto ricchi) ma per le imprese locali, che così dipendono meno dall’export verso i nostri paesi.

Qualche giorno fa ho moderato un incontro internazionale di colleghi ascensoristi, ed ho imparato alcune cose, perché c’è sempre da imparare. Tra esse, un autorevole collega turco diceva che, con la continua svalutazione della loro moneta (che si chiama lira, vi ricorda qualcosa?) ormai la manodopera in Turchia costa meno che in Cina. Infatti nel mio settore il prodotto cinese in Europa non è quasi presente, mentre sta sfondando quello turco. Tra l’altro i turchi seguono le nostre normative, si sottopongono alle nostre richieste di certificazioni senza discutere, fanno un prodotto più vicino alle richieste dei nostri mercati, perché il loro stesso mercato è più simile al nostro di quanto non lo sia, poniamo, quello vietnamita.

La globalizzazione quindi non si ferma, ma cambia in parte volto: si sviluppa sempre di più sui prodotti di qualità, e sempre meno su quelli di basso prezzo. Perché la Cina, e pian piano il resto dell’Asia, non sono più così competitivi, e perché sono meno interessati alla fascia povera del nostro mercato.

Qualche anno fa credevo che progressivamente la produzione a basso prezzo si sarebbe spostata su paesi ancora più poveri di quelli dell’Asia, e cioè in Africa, e in parte ci credo ancora. Solo in parte però, e il perchè ve lo spiego con una vicenda che preferirei non dover riferire.

Non molto tempo fa Calzedonia ha aperto una fabbrica di calze (costruita dai cinesi) a Macallè, nella regione etiopica del Tigrai. Ecco dove si fanno ormai i prodotti a basso prezzo, mi dicevo! Un anno fa il presidente etiopico Abyia Ahmed ha ricevuto il Nobel per la pace per avere chiuso il conflitto più che ventennale con l’Eritrea. Peccato che con ciò abbia destabilizzato gli equilibri federali in Etiopia, e il Tigrai si sia ribellato. Nel giro di poche settimane Macallè è diventata una zona di guerra, gli italiani di Calzedonia (sei) sono stati rimpatriati in fretta e furia, e la fabbrica è ferma.

Al di là del Covid19, che passerà, speriamo anche presto, sono alcune di queste dinamiche secolari a dettare i limiti della globalizzazione.

Talvolta però mi domando dove, tra qualche anno, verranno fabbricati i prodotti a basso prezzo, se in Asia i lavoratori costeranno di più, l’America tutta fa storia a sé, e l’Africa resta in gran parte luogo di imprevedibili ed improvvisi conflitti. Forse la risposta non è alla domanda: dove? ma alla domanda: da chi? Questa risposta potrebbe essere: dai robot, magari qui a Parma. E allora gli esseri umani che vorranno, e peraltro dovranno lavorare, se non ne vogliamo sussidiare milioni, per sempre, dovranno produrre per forza qualità. E così le nostre aziende.

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